giovedì 20 luglio 2017

L'idea vincente del liberalismo classico e l'errore fatale del libertarismo

Qualche giorno fa, alcuni amici libertari hanno proposto e fatto circolare un vecchio articolo di J.H. De Soto dal titolo "L’idea vincente del libertarismo e l’errore fatale del liberalismo classico"
Forse per ingenuità, ma per questa volta mi azzardo ad affrontare, da dilettante della scienza della politica, un accademico titolato e le sue tesi.




Forse per ingenuità, ma per questa volta mi azzardo ad affrontare, da dilettante della scienza della politica, un accademico titolato e le sue tesi.
E quello che mi smuove dalla mia pigrizia e naturale riluttanza ad assumere impegni più grandi di me, è la consapevolezza che le idee siano una cosa troppo importante e dalle conseguenze troppo pesanti per non essere contrastate quando sbagliate o semplicemente “parziali verità prese per il tutto”.
Di idee sbagliate, magari perché generalizzazione di “verità” parziali o comunque  valide in un campo ben delimitato, ne ho trovate nell’articolo. A partire dalle tesi del ragionamento che vengono poi spiegate ampiamente nel testo.
Quali le tesi? Come scrive De Soto:
“la scienza economica ha già dimostrato: (a) che lo stato non è necessario; (b) che lo statalismo (anche se minimo) è teoricamente impossibile; e (c) che, data la natura degli esseri umani, quando esiste lo stato, è impossibile limitare il suo potere”.

Certo, se l’uomo fosse limitato alla dimensione economica, se fosse solo “homo oeconomicus”, probabilmente le tesi proposte da De Soto al ragionamento che porta a concludere che  il liberalismo sia utopico e necessariamente perdente, sarebbero anche valide; ma il mondo è forse riducibile al fatto economico?
Non direi, perché l’uomo non è solo soggetto all’attività economica, che si manifesta nella produzione, nello scambio, nell’accumulo.. no! Come ricorda Oppenheimer[1]:

The State, completely in its genesis, essentially and almost completely during the first stages of its existence, is a social institution, forced by a victorious group of men on a defeated group, with the sole purpose of regulating the dominion of the victorious group over the vanquished, and securing itself against revolt from within and attacks from abroad.
[..]
There are two fundamentally opposed means whereby man, requiring sustenance, is impelled to obtain the necessary means for satisfying his desires. These are work and robbery, one’s own labor and the forcible appropriation of the labor of others.


Forse lo stato non è necessario per l’uomo economico, ma è un dato di fatto, una condizione non negoziabile, qualcosa con cui ci troviamo ad avere a che fare a prescindere dalla nostra volontà. E a questo punto, che lo stato (le istituzioni politiche di una comunità) non sia necessario, poco importa; perché basta la volontà e la forza di un gruppo di individui per crearlo, che solo la volontà e forza di un altro gruppo potrebbe impedire. Per altro, l’impedire l’affermazione della volontà di un gruppo creerebbe una comunità politica di fatto “statuale”, portandoci al risultato che perché lo stato sia, basta la volontà di sopraffazione di un qualsiasi gruppo di individui interni o esterni alla società. Se l’azione ha successo, saranno loro i dominatori; se avrà insuccesso, saranno i loro antagonisti comunque ad emergere come dominatori.
Che cosa ci dice questo? Che la vita è contraddittoria e non logica, ed è la lotta, più che il ragionamento, e tanto meno la razionalità economica, a determinarne gli esiti. E se l’uomo è economico, almeno altrettanto importante e determinante è la sua dimensione politica.
Questo nel mondo e nella vita reale. Quel mondo e quella vita reale dove la minimalità dello stato non è il frutto di un teorema, ma della storia, spesso del caso e sempre almeno un pò della lotta degli individui. “Purtroppo” lo stato minimo non è una costruzione a tavolino, un teorema o che altro, ma il concreto frutto del conflitto, come anche della cooperazione, tra gli uomini; così come lo stato è un prodotto della storia oltre che degli uomini presenti. Ci sta anche la razionalità economica, ma come fattore tra tanti e non come fattore determinante.


Andando alla seconda tesi, che lo statalismo sia fallimentare, questo è vero, ma anche qui non sempre e non ovunque, perché sono le guerre che hanno portato allo sviluppo dello stato, e se sul lato economico lo statalismo è generalmente fallimentare, nel momento della guerra può consentire una mobilitazione di risorse materiali (ma non solo) ed un decisionismo capace di essere vincente. Se non consideriamo questi punti di forza oggettivi che si sono manifestati nella storia allora difficilmente possiamo comprendere perché oggi facciamo così fatica a limitare lo stato, altro che a superarlo.
E gli elementi che rendono difficoltosa e quasi impossibile la limitazione dello stato sono anche validi, eppure proprio lo scontro di volontà e interessi, finisce ad essere il vero limite allo stato.
Ancora una volta debbo dire “purtroppo”, ma i tanti validi argomenti che il mondo libertario può portare, si perdono in quello che, questo si, direi un utopismo ingenuo.
Perché pensare di dedurre da una teoria economica un nuovo ordine politico trovo sia di una ingenuità disarmante, alla faccia del liberalismo utopico di noi liberali di vecchio conio contrapposto al liberalismo scientifico dei nuovi libertari.
Che dire? Che agli amici lib consiglio di recuperare l’ABC della politica, da nutrirsi si di buone idee, ma di imparare che senza arte politica le buone idee tendono a rimanere tali, ma irrealizzate per l’eternità.
Come liberale di vecchio conio apprezzo tantissimo gli argomenti degli amici libertari, ma li invito a pensare ad un percorso politico per realizzarle..si troveranno allora a decidere tra queste due alternative: una visione deterministica, dove il nuovo ordine emergerà in modo deterministico dallo sviluppo oggettivo delle forze produttive o una visione politica, dove un nuovo ordine emergerà come risultato delle lotte di tanti soggetti, e sarà comunque un ordine politico transitorio e locale con le radici nel presente e nella storia.
Quindi la storia continuerà, e non finirà finendo lo stato, come sembra trasparire da un libertarismo a tinte un pò messianiche. Io credo poco alla fine della storia, e tanto meno in un determinismo storico, anche se tale prospettiva possa risultare anche affascinante.. credo più che la storia ci farà compagnia finché esistiamo, e sarà una storia che non potrà prescindere dalla dimensione politica dell’uomo.
Lo stato minimo è una contraddizione, suggerisce De Soto a noi vecchi liberali. Ha ragione, ma la vita stessa è pura contraddizione, lotta, incertezza. E tra De Soto e Popper, preferisco il Popper che aspira allo stato minimo pur cogliendone le ineludibili contraddizioni e ricordando che il minimo è sempre relativo ai tempi e alle condizioni storiche. Per non illuderci ancora, ma senza demordere mai. Nelle parole di Popper[2]

Lo stato è un male necessario. I suoi poteri non dovrebbero essere accresciuti oltre il necessario. Si potrebbe chiamare questo principio il “rasoio liberale” (sulla scorta del rasoio di Ockham, del celebre principio cioè secondo il quale gli enti metafisici non devono essere moltiplicati più del necessario)
[...]
Quanti (forti o deboli) (...) ritengono che ognuno abbia diritto a vivere e l'esigenza di esser difeso dal potere dei forti, riconosceranno anche la necessità d'uno stato che tuteli i diritti di tutti.
Ma non è difficile dimostrare che lo stato rappresenta un costante pericolo e per questo un male, seppur un male necessario.  Perché lo stato deve adempiere ai propri compiti deve avere più potere di ciascun singolo cittadino o di ciascun gruppo di cittadini. Nemmeno ideando istituzioni che lo limitino il più possibile, il rischio potrà mai essere completamente eliminato. 


Infine, per quanto riguarda l’ultima delle tesi di De Soto, cioè l’incontro tra l’umana natura e la tendenza dello stato alla onnipotenza, dice una cosa corretta, ma parziale: è vero che la limitazione difficilmente può darsi come frutto della intenzionalità degli uomini, ma può risultare invece dalla creazione, in genere inintenzionale, di relazioni sistemiche. Tali relazione, in talune circostanze, porterebbero ad un equilibrio magari di regime, magari instabile o metastabile, ma un equilibrio di sitema in cui tentativi di allargamento dei poteri statali vengano contenuti o rintuzzati dalle tante forze che una comunità viva esprime.
A differenza degli amici libertari, non credo esistano pietre filosofali e ricette magiche: lo stato è un male ma necessario, in quanto impossibile da evitarsi. La consapevolezza che sia un pericolo è forse l’antidoto migliore alle derive e deliri di stampo statalista. Ma, come liberale di vecchio stampo, debbo assumere che, al di là della utilità, più o meno contestabile, lo stato come comunità politica organizzata con regole e istituzioni politiche è un fenomeno “naturale” ...fatto salvo la radicale diversità che questo può assumere. Quello che De Soto enuncia come liberalismo scientifico (“lo smantellamento dello stato e la sua sostituzione con un processo competitivo di mercato, costituito da una trama di agenzie, associazioni e organizzazioni private”) alla luce dell’esperienza storica e del buon senso (prima ancora che del ragionamento) appare una aspirazione nobile e bella, ma sostanzialmente irrealistica a meno di cambiare nome alle istituzioni politiche. Un esercizio, il cambio del significato delle parole, sempre alla moda ma di dubbia utilità. Con lo stato, nolenti o volenti, dovremo convivere, pur auspicando, da liberale, che gli uomini acquisiscano la coscienza della sua pericolosità e la volontà, prima che capacità, di limitarlo.
Perchè “Io so che, per uomini che vivono in comunità, non c’è necessità più grande di quella di essere governati: di governarsi da sé, se possibile; di essere ben governati, se sono fortunati; ma, in ogni caso, di essere governati”[3]

Carlo Annoni
20 luglio 2017
________________
[1] Franz Oppenheimer, The State [1919]
[2] Karl Popper - Alla ricerca di un mondo migliore. 1984
[3] Walter Lipman (citazione tratta da “Ordine Politico nelle società in cambiamento” di S.Huntington)

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